Giochi di bimbi

Sotto casa mia c’è un asilo, una scuola materna come si dice ora. Accanto a questo un grande spazio adibito a campo giochi per bambini, un campo da basket e uno da calcio, uno spazio con tavoli e panchine dove potersi sedere, fare merenda. Mi piace guardare dalla mia finestra, e osservare il susseguirsi degli eventi. In settimana sono soprattutto le mamme che accompagnano i bambini, li aspettano fuori dalla scuola materna all’orario di uscita e poi si fermano per un po’ nello spazio dei giochi. Se il tempo è bello, ora che le giornate si allungano, si fermano fin verso le 17 e anche di più. Ad una certa ora arrivano anche i ragazzi più grandi, quelli delle medie, e si mettono a giocare a basket, interrotti qua e là da bambini più piccoli che si aggirano con i monopattini, indifferenti al gioco dei più grandi, passando in mezzo a loro e rischiando anche di prendere qualche pallonata.
Il martedì mattina invece arriva una classe di maschi, probabilmente età liceo, che guidati da un docente (probabilmente di ginnastica) si fanno una vera e propria partita a calcio. A quel punto di solito mi disinteresso e riprendo le mie faccende.
La domenica invece si vedono soprattutto i papà, e i più giocano a calcio con i loro bambini: un papa, un bambino; un papà, un bambino. Anzi: un papa, un bambino, un pallone; un papà, un bambino, un pallone… Mi domando perché non si uniscano e giochino insieme con un pallone solo… Domande da mamma, penso. Chissà.
Poi c’è qualche papà che ha anche una bimba, che abbandona da qualche parte a fare qualche altro gioco, perché il figlio maschio – si sa – ha la precedenza. Ma dopo un po’ la bimba si stufa, e raggiunge il babbo chiedendo la sua attenzione.
Che difficile dividersi fra i figli e cercare di dare a tutti la medesima attenzione!

Pina Bausch al Lac

Due donne. Due madri, due amiche. Alte, corpo asciutto, muscoli; abiti neri lunghi, braccia e spalle scoperte. Sedute una di fianco all’altra, di spalle al pubblico, un lungo bastone fra le mani che muovono come un remo per navigare. Poi si accarezzano, una siede sulle braccia dell’altra che l’accarezza teneramente come una madre con un figlio; si scambiano posizione, dandosi un abbraccio reciproco. Si alzano, si muovo lentamente, i movimenti sono precisi, attenti, mai inutili. E’ uno scambio muto di parole, di tenerezze, di storie che si raccontano, fra passato e presente. C’è femmilità, c’è amore, tenerezza, dolore anche. Sono storie di vita, che le due donne ci trasmettono con la loro danza-teatro.

Due grandi danzatrici: Germaine Acogny, “madre della danza africana contemporanea” e Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2021, e Malou Airaudo, ex membro del Tanztheater Wuppertal per il quale ha interpretato ruoli centrali in molte opere di Pina Bausch.
E’ stato interessante notare come, pur avendo entrambe grande esperienza dei gesti e movimenti della danza, Germaine Acogny aveva comunque il ritmo e la gestualità propria africana. Lo vedevo nel suo muovere le spalle, i fianchi, diversamente da Malou Airaudo che era invece molto tradizionale e direi europea.

Nell’intervallo lo spettacolo nello spettacolo: una dozzina di addetti alle scene salgono sul palo e lo ricoprono inizialmente con una sorta di base in legno, che battono con i piedi per fissarlo bene al suolo del palco stesso, e mimando involontariamente una sorta di pre-danza tribale, suscitando l’applauso divertito del pubblico rimasto seduto in sala. Poi su questa base entrano setti o otto contenitori del tipo immondizia, colmi di terra nera, che con grandi pale da neve gli addetti iniziano a spargere su tutta la superficie di legno, ben attenti a farlo in modo regolare, senza lasciare buchi o montagnette, e pulendo il contorno. Una mezz’ora di lavoro, anche qui alla fine applausi per il loro lavoro.

E poi, la meraviglia: inizia la musica della Sagra della Primavera di Stravinsky ed entrano in scena i danzatori. Donne e uomini provenienti da quattordici diversi paesi africani, danzano un rituale inflessibile, che prevede il sacrificio di un “prescelto” che cambia la stagione dall’inverno alla primavera. Una danza tribale, forte, energetica, ritmata, che ben si adatta alla musica contemporanea di Stravinsky. Le donne con semplici abiti-sottoveste leggeri, gli uomini a torso nudo, si muovo a gruppi, si inseguono, si accoppiano, si cercano e si lasciano, fino a trovare la “prescelta” che, vestita di un abito rosso, sarà sacrificata al bene comune.

Mondo impazzito

Questa mattina apro la pagina web del Post, unico giornale serio che leggo. Mi è venuta subito una sorta di depressione esistenziale. Prima notizia, il piano di evacuazione dell’ultima città controllata da Hamas di Israele. E vabbè, mi dico, volta pagina, sai che fino a che Netanyahu non ha deciso di aver cancellato Hamas dalla faccia della terra, non si fermerà. Non posso dargli del tutto torto, anche se soffro per le migliaia di Palestinesi morti o sofferenti per quella situazione assurda. Voluta da loro però, perché Hamas e Palestinesi sono due sinonimi.

Scorro la pagina di due step, e mi trovo un’immagine allucinante di migliaia di Tir che, in entrata dai caselli in autostrada, bloccano praticamente tutte le corsie anche alle poche automobili. Pare che in Italia non ci siano mai stati così tanti Tir sulle autostrade. E noi svizzeri ci lamentiamo perché non viene incentivato l’uso del trasporto via ferrovia! Demoralizzante…il consumismo estremo porta anche a questo. Quando vogliamo mangiare le fragole a dicembre, gli avocado e i mango tutto l’anno, poi non dobbiamo lamentarci se le strade sono intasate.

Scendo ancora, e la foto seguente è un tripudio di giallo e verde: l’enorme manifestazione dei sostenitori di Bolsonaro in Brasile. Un “vice” Trump giallo-verde, uno che afferma gli siano state rubate le ultime elezioni, senza portare alcuna prova. Uno che è accusato di aver tentato un colpo di stato, nonché altre nefandezze. Uno che voleva militarizzare le scuole. Uno che chiamare Nazista è ancora poco.

Poi arrivo alle notizie delle prime pagine di oggi su tutti i quotidiani italiani, e lì trovo le manganellate agli studenti (agli studenti!!!!!) che pacificamente manifestavano in piazza a Firenze e Pisa a favore della Palestina.

E poi: quanti soldati russi sono morti nella guerra in Ucraina? Le donne che fanno parte del Ku Klux Klan. E altre notizie più o meno importanti, ma tutte che segnalano un aumento di aggressività, intolleranza, individualismo generale in tutto il mondo. Che in questo periodo storico è davvero un brutto mondo!

Sono dispiaciuta e preoccupata per i miei nipoti, io ormai vado verso la fine di questo mio cammino sulla terra, ma come sarà il loro mondo quando cresceranno? Cosa troveranno nel loro futuro? Mi dicono che non posso gestire ciò che non posso cambiare, posso solo accettarlo. E’ vero, ed è ciò che sto cercando di fare. Accettare che ora, qui, in questo momento, sto vivendo in una società che non mi piace, che non mi appartiene, nella quale mi sento estranea.

Torto marcio

Alessandro Robecchi – Torto marcio – Sellerio

 

Un thriller di qualità capace di coniugare il romanzo di genere e quello di costume e di critica sociale. Tre luoghi di Milano, vicini sulla mappa ma lontanissimi tra loro, per il nuovo romanzo di Robecchi: la casa di Carlo Monterossi, autore televisivo di una trasmissione trash (di cui si vergogna), cultore di Bob Dylan e detective per caso; il quartiere malfamato attorno a San Siro, un mercato degli alloggi governato dai calabresi, dal collettivo di sinistra e dagli africani che si dividono democraticamente spazi e spacci; infine la questura dove lavorano in tandem il sovrintendente Carella e il vice Ghezzi. Nel centro di Milano hanno sparato a un commerciante di carni, sessantenne ricco e senza ombre, ma c’è una nota stonata: sul cadavere un sasso bianco, liscio, rotondo, poggiato sul petto. Dopo pochi giorni un altro omicidio con le stesse modalità – ancora una volta una pietra sul corpo – getta la città nel panico. Una firma? L’assassino dei sassi occupa le pagine dei giornali, radio e tv, compresa la trasmissione “Crazy Love” che Carlo Monterossi sta finalmente per abbandonare e non ne vede l’ora. Ed è in questo frangente che l’agente di Carlo, Katia Sironi, la sua alleata per la vita, chiede aiuto: la madre anziana è stata derubata in casa di alcuni gioielli, tra cui un anello preziosissimo. E così Carlo, “l’uomo curioso”, “l’uomo che risolve problemi”, con l’amico Oscar Falcone si mette a caccia dell’anello, solo che nella ricerca della pietra preziosa si imbatte nelle pietre degli omicidi, che nel frattempo sono diventati tre. Da San Siro a via Manzoni, dalle cantine degli alloggi popolari a un albergo sul lago, le indagini di Carella e Ghezzi si incrociano con quelle di Monterossi, finché i conti finiranno, amaramente, per tornare per tutti.

Mio figlio

Mio figlio è tornato a parlare con me. Posso dire che è tornato in un senso più ampio, ma di questo non ne sono ancora così sicura. Ci siamo sentiti due volte al telefono, le sue scuse, le spiegazioni, la mia reticenza ad ascoltare ciò che mi fa male sentire, ascoltare, accettare… poi qualche scambio di messaggi whatsap, foto e saluti. Domenica prossima forse ci vedremo, vorrebbe venire a trovarmi: da un lato non aspetto altro che rivederlo, dall’altro ne ho quasi paura: sono trascorsi più di due anni dall’ultima volta che l’ho visto di persona, mi chiedo come sarà ora. Avrà la testa rasata? Avrà la barba oppure il visto glabrio? Come sarà vestito? Tutto di nero come si confà a quei suoi compagni del movimento a cui ora appartiene? Oppure in mio rispetto si abbiglierà come al solito, casual? Avrà qualche strano simbolo addosso? Una svastica forse? Spero di no, così come sono “quasi” certa che non avrà tatuaggi, lui ha paura del dolore. Ma non si può mai dire, è così cambiato in questi ultimi anni… Quello di cui sono certa è la mia difficoltà ad accettare questa sua parte, questa sua ideologia così lontana dalla mia.
All’inizio, quando l’ho saputo, ho avuto una sorta di rigetto, un profondo dolore che non mi lasciava accettare questo figlio nella sua completezza. Poi, lavorandoci sopra, leggendo, confrontandomi con chi mi poteva aiutare a capire, ragionando, ho capito che mio figlio è “anche” questo.
Ogni essere umano è destinato a compiere il proprio destino, che a noi genitori non è dato conoscere perché solo la sua anima sa per cosa si è incarnata in quel suo corpo che noi genitori abbiamo generato. E se questo è la sua strada, quella che lui è destinato a percorrere, chi sono io per contrastarla? Posso solo accettarla. Accettare ciò che non posso cambiare.

Accettare mio figlio così come è, con la sua parte che da mamma conosco bene, ma anche con quella sua adulta che invece non conosco, che è solo sua.
Quello che posso fare per me stessa però, è difendermi da ciò che non mi appartiene e che non fa parte di me.

Energia

L’energia viene consumata dalla tensione necessaria a mantenere una facciata contro un sottostante sentimento, e ciò costituisce un grande stress per l’organismo.

Non è possibile combattere se non si è preparati ad affrontare il dolore.

Amicizia

Ho trovato un’amica gentile,

mi ascolta quando parlo, piango e mi dispero;

Tira la mia vita con fili sapienti

e ne ricava il meglio.

Recalcitro

davanti alle nude verità

che mi mette davanti.

Ma di queste avevo bisogno.

Mio fratello Marco

La notte fra il 5 e il 6 gennaio 2024, all’alba quindi di questo nuovo anno che ci auguravamo felice e sereno, mio fratello Marco si è addormentato per non risvegliarsi più.

Il dolore che ho provato quando mi è stato comunicato è stato devastante. Non credevo di provare ancora un dolore simile da quando è morta mamma, più di trent’anni fa. Lui era il mio fratellino più piccolo, quello con il quale mi sentivo più in sintonia, forse perché più simili sia fisicamente che di carattere.

Ricordo che quando è nato questo fratellino, dopo diciassette mesi da Alberto, io volevo lo chiamassero Sergio. Ho pestato i piedi, ho fatto i capricci (avevo sei anni), li ho implorati, alla fine per accontentarmi glielo hanno messo come secondo nome. Non so perché mi piacesse così tanto quel nome, peraltro mai sentito, non è che avessi amichetti che si chiamassero così; forse per il suono, forse perché guardandolo così piccolo, fragile, indifeso, ho sentito che lui era “Sergio”. Invece è stato Marco; Marcolino per me talvolta, o Fratellino, e io Sorellona, perché più grande. Tenerezze fra fratelli, piccoli ricordi che ora mi fanno piangere ogni volta che mi tornano alla mente.
Si dimenticava sempre la data del mio compleanno, mi telefonava due o tre giorni dopo, e quando gli dicevo no, era l’altro ieri, scoppiava a ridere “sono sempre il solito pasticcione” diceva di sé.
Negli ultimi anni abitavamo vicini, dieci minuti a piedi uno dall’altra, e talvolta uscendo per andare al supermercato ci davamo appuntamento per prendere un caffè e fare due chiacchiere. Mi mancheranno quelle piccole pause che ci prendavamo, quelle telefonate “sono il Marco” diceva quando rispondevo, come se io non lo sapessi, leggendo il suo nome sul display.

Mi aveva fatto tanto arrabbiare negli anni, questo mio fratello un po’ complicato, che ha avuto una vita complicata; ne ha combinate di tutti i colori, come si usa dire, ma gli ho sempre voluto un gran bene. Anche nei momenti peggiori, quelli in cui la rabbia per ciò che mi aveva fatto era al massimo, dentro di me sentivo che lui avrebbe sempre avuto un posto speciale nel mio cuore, e che qualunque disastro avrebbe combinato nella vita io ci sarei stata per lui. E credo che lui lo sapesse.

Da giovane era fiducioso e si offriva con gerosità nelle amicizie, restandone però spesso deluso e finendo nei guai per la colpa degli altri. Un po’ ingenuo forse, quella ingenuità che appartiene ai buoni d’animo, ai puri, a coloro che non pensano male e si fidano degli altri. Troppo. A differenza sua io ho una parte che mi viene dal mio ascendente Leone, che mi dà concretezza e pragmaticità. Lui, cancro puro, faceva voli pindarici che gli promettevano “l’eredità del famoso zio d’America”, la ricchezza economica realizzando piccoli “mobiles” di pesciolini o uccelli di origami, o ancora cinture colorate in macramé. Che non sapeva però proporre e vendere.

Era un musicista, era passato dal trombone al contrabbasso, di quelli veri, grandi, enormi, in legno, per suonare il jazz, passione che condivideva con l’altro nostro fratello Alberto. Insieme in gioventù avevano formato un quartetto con altri due musicisti, gli Snaxton, ed aveva avuto un discreto successo nella regione; erano stati invitati perfino ad esibirsi nella sezione giovane del Festival del Jazz di Montreux. Suonavano brani classici, gli standard del jazz, ma anche composizioni loro, più free, più difficili da ascoltare ed apprezzare per i profani di questo genere di musica. In quel periodo ho potuto seguirli poco, io ero già sposata e con una o due figlie, e non vivevo più così vicina. Ma a qualche loro concerto sono riuscita ad andare, ed ero molto orgogliosa dei miei “fratellini” musicisti.

 

Concerto Snaxton, Ascona, 1982

 

cani e padroni

Odio i cani. Una volta no, anzi, ne avevo uno anch’io, una barboncina bianca di nome Carlotta. Ma da qualche tempo inizio ad essere infastidita e anche impaurita da questi animali. So che la colpa non è loro, a parte qualche cane particolarmente aggressivo come quello che sta nell’appartamento al piano terreno della mia palazzina, che tenta di aggredirmi e mi abbaia sempre quando vado in giardino a prendere la mia bicicletta. Dicevo, so che la colpa non è dei cani, ma dei loro padroni che non sanno gestirli come dovrebbero.

Questa mattina ho notato un signore con un bellissimo cane bianco, taglia Labrador per intenderci, che lo faceva giocare nello spazio del campo pubblico dedicato ai bambini; lì dove c’è la ghiaia e le strutture con i nuovi giochi appesi: altalene, reti e corde per arrampicare, una casetta di legno su cui salire e scivolare dal tetto. Il proprietario lanciava un pezzo di legno e il cane correva ovunque, fra i giochi e gli spazi verdi, recuperando il suo oggetto del desiderio. Ma se si fosse fermato a fare pipì o, dio non voglia, il grosso, in un luogo dove poi i bambini vanno a giocare? Non voglio pensarci…

Poco più in là di questo spazio, peraltro recintato da bassi muretti che fanno da panchine per sedersi, ci sono altri spazi tenuti a prato, senza giochi, senza nulla che attiri i bambini, suddivvisi da vialetti asfaltati dove al massimo possono girare in bicicletta o con i monopattini. Mi sono chiesta per quale motivo il signore non ha portato il suo cane a giocare in questi spazi liberi da giochi e bambini? Cosa gli costava lanciare il suo stupido pezzo di legno da un’altra parte?

Penso che la risposta sia che oggigiorno le persone sono sempre più egoiste, indifferenti al bene comune, interessate solo al proprio bene e al proprio interesse. “Che interessa a me se il mio cane giocando sporca, rompe, rovina uno spazio e dei giochi riservati ai bambini? L’importante è che lui si possa divertire!” questo è ciò che deve aver pensato (forse, perché dubito perfino che abbia pensato, riflettuto) questo signore.

luminarie

Siamo al 18 di novembre e sono già apparse le prime luminarie sulle finestre di un palazzo dietro casa mia. Logico: se già a fine ottobre i supermercati e i grandi magazzini espongono decorazioni e merci natalizie, ovvio che le persone si sentono invogliate a imitarli.

Per quanto mi riguarda non farò proprio un bel niente.