L’amore che mi resta

Daria pensava che l’amore potesse riparare ogni cosa. Poi Giada, sua figlia, si è uccisa. E il mondo è andato in pezzi.

La sera in cui Giada si ammazza, Daria precipita in una sofferenza che nutre con devozione religiosa, perché è tutto ciò che le resta della figlia. Una sofferenza che la letteratura non deve aver paura di affrontare. Per questo siamo disposti a seguire Daria nel suo buio, dove neanche il marito e l’altro figlio riescono ad aiutarla; davanti allo scandalo di una simile perdita, ricominciare a vivere sembra un sacrilegio. Daria si barrica dietro i ricordi: quando non riusciva ad avere bambini e ne voleva uno a ogni costo, quando finalmente ha adottato Giada e il mondo «si è aggiustato», quando credeva di essere una mamma perfetta e che l’amore curasse ogni ferita. Con il calore avvolgente di una melodia, Michela Marzano dà voce a una madre e al suo struggente de profundis. Scavando nella verità delle relazioni umane, parla di tutti noi. Del nostro desiderio di essere accolti e capiti, della paura di essere abbandonati, del nostro ostinato bisogno di amore, perché «senza amore si è morti, prima ancora di morire».

Acquistato in un momento di difficile relazione con mio figlio, ho pensato trattasse il tema della perdita di un figlio, ma ho scoperto molto di più in queste pagine. Questo è un romanzo sulla maternità, sull’adozione, un romanzo sull’elaborazione del lutto. Michela Marzano condensa qui anni di studi filosofici e di impegno civile, anni che l’hanno resa una delle figure di riferimento per ripensare il concetto politico di genitorialità. E’ anche un romanzo sulla ricerca della propria identità, su quell’identificazione di sé che passa attraverso o meno la maternità, e la ricerca di quel “pezzo di sé” mancante.

Si può essere madre anche senza aver portato il proprio figlio o figlia nel ventre, ma questo fatto deve tenere conto che c’è un’altra madre, da qualche parte. Una madre che, nel caso di un’adozione, per ragioni che non possiamo comprendere né giudicare, ha lasciato che fosse qualcun altro a dare un nome, una casa e delle risposte. La genitorialità, la maternità, non sempre hanno a che fare con la biologia.

 

L’amore che mi resta, Michela Marzano, Ed. Giulio Einaudi, 2017

L’estate degli annegamenti

«L’aspetto che più spicca del lavoro di Burnside, a parte l’esattezza del linguaggio, è la bellezza della prosa. Detto in maniera molto semplice: scrive meravigliosamente». The Irish Times

Sono assolutamente d’accordo con quanto affermato dal The Irish Times, la prosa di questo scrittore mi ha letteralmente incantato e affascinato. John Burnside ha una scrittura di grande bellezza e maestria.

In questo romanzo il tema giallo e misterioso si intreccia con il mito, e la protagonista – riflessiva e analitica grazie alla scrittura di Burnside – racconta di un’estate trascorsa su un’isola norvegese dove la madre pittrice ha scelto di vivere, nella solitudine e nell’isolamento. Sullo sfondo un padre assente che riappare all’improvviso per poi subito riscomparire. Antiche leggende e spiriti impregnano i legni di rimesse, pontili e dimore, dove si conserva la memoria di antichi e funesti eventi: ragazzi di campagna usciti alle prime luci dell’alba e tornati a casa contaminati da qualcosa di innominabile, un battito d’ali o un soffio di vento nella testa, al posto dei pensieri. Durante quell’estate Liv ascolta affascinate queste leggende raccontatele da un vecchio vicino di casa, ma non crede all’esistenza di tali forze o esseri. Quell’estate, però, in cui la ragazza compie 18 anni, accadono eventi così letali da sradicare le sue più solide e ferme convinzioni.

 

L’estate degli annegamenti, John Burnside, Neri Pozza Editore, 2016

L’ultimo arrivato

L’emigrazione nelle grigie periferie milanesi è il tema di fondo di questo terzo romanzo di Marco Balzano. La storia di Ninetto, ragazzino emigrato a soli dieci anni, la sua difficoltà ad esprimere se stesso, tratteggiato con grande umanità nel rapporto con Maddalena, la ragazzina di cui si innamora e che vuole a tutti i costi, e che resterà la compagna della sua vita, anche quando nulla andrà più per il verso giusto.
Quella che dipinge Balzano è una Milano che si trasforma, che vede avvicendarsi nelle periferie anonime dove i condomini sono “alveari”, prima gli immigrati meridionali e poi quelli odierni, senza modifiche in termini di squallore e abbandono, salvo le fabbriche che non esistono più, il lavoro scomparso per chi come Ninetto deve riprendere in mano la sua vita, dopo una parentesi lunga dieci anni in carcere.

 

L’ultimo arrivato, Marco Balzano, ed. Sellerio, 2014

Momo

L’ho trovata un caldo mezzogiorno di giugno di due anni fa; per la verità me l’hanno letteralmente messa in mano dei turisti stranieri che aggirandosi per la piazza assolata l’avevano trovata in un angolo vicino alla chiesa. Era sola, piccola, non si muoveva, e sarebbe sicuramente morta se loro non l’avessero raccolta. L’unico negozio aperto a quell’ora era il mio. Così sono entrati da me e mi hanno messo fra le mani questo batuffolo grigio. Sembrava un topino, gli occhi ancora chiusi, il musino spelacchiato con gli occhietti e il nasino rosa, le orecchie troppo grandi, sproporzionate, e una codina piccina piccina, che stava diritta come una piccola spada.

Me ne sono subito innamorata, ma era così piccola che temevo non sarebbe sopravissuta senza la sua mamma, così sono uscita e ho fatto il giro della piazza, chiedendo agli altri negozianti e perfino ai frati della vicina chiesa se per caso avessero una gatta che avesse da poco partorito. Niente, nessuno ne sapeva niente. Telefono alla mia amica veterinaria, per sapere che fare, lei mi dice che sicuramente non ha più di una settimana di vita. Posso provare a nutrirla e accudirla, ma mi consiglia anche di non illudermi, è molto difficile quando sono così piccoli riuscire a salvarli.

Così la porto a casa, e rientrando passo dal negozio per animali e compro biberon, tettarelle, latte in polvere, e mi accingo a rivivere, se pur in misura diversa, le mie maternità. Perché alla fine non è molto diverso, anche questi cuccioli hanno bisogno di mangiare ogni due/tre ore, dormire a lungo, stare al caldo e ricevere coccole e attenzioni. Il difficile all’inizio è stato farle capire che dalla tettarella usciva il latte, se solo avesse succhiato… ma come si fa a spiegare ad un gattino appena nato che deve succhiare? Lei tentava con la linguetta, poverina, ma la tettarella di gomma non è come la tetta della mamma-gatta, sicuramente più morbida! Così ho provato con una siringa senza ago, spingendo piano il latte dentro la sua bocca. Lei cacciava fuori la linguetta e tentava di leccare quel liquido caldo e dolce.

Poi finalmente, dopo numerosi tentativi, parecchie macchie di latte sulla tovaglia, spruzzi vari e miagolii disperati di questa micetta affamata, finalmente capì come doveva fare e iniziò a succhiare anche dalla tettarella. Malachia e Minou, gli altri due gatti, erano molto incuriositi da questo affarino che strillava come un gatto affamato, ma che non sembrava proprio un gatto…chissà cos’era, si saranno chiesti. Dopo un paio di annusate hanno capito che non era nulla di pericoloso, soprattutto che non attentava alle loro ciotole, né alle loro coccole, e se ne sono disinteressati.

Momo – così l’ho chiamata, come la piccola bambina protagonista dell’omonima storia di Michael Ende – mangiava ogni due ore, poi dovevo stimolarla per farle fare i suoi bisogni, come fanno le mamme-gatte, quindi la sistemavo in una grande scatola piena di morbide coperte, dove poteva dormire tranquilla, al sicuro dalle “nasate” degli altri, per lei, “giganteschi” gatti.

Dopo qualche giorno ha cominciato a riconoscere la mia voce, appena mi avvicinavo alla scatola e parlavo, anche senza vedermi mi riconosceva e cominciava a miagolare, con la sua vocina flebile ma pur tuttavia forte. Passata una settimana, ha aperto gli occhi, e verso i venti giorni ha iniziato a zampettare, prima in maniera molto buffa e comica, con le zampe larghe, la pancina gonfia dal latte appena preso che quasi toccava terra, gli unghioli anche tutti esposti. Durante il giorno la portavo con me in negozio, mi ero attrezzata, la mettevo prima in una scatola da scarpe, poi dentro una borsa di tela che appendevo al manubrio del mio motorino, e poi via, rombando fino al paese. In negozio ogni due ore la pappa, e naturalmente se entrava qualche cliente si fermava stupito e incuriosito a guardarla. Se poi c’erano dei bambini, non se volevano andare più!

Me la sono portata anche al mare in un lungo week-end a luglio, e poi ad agosto è venuta con me in vacanza in Puglia. Viaggiavo con beauty-case, omogeneizzati, croccantini, ciotoline, palline di gomma per farla divertire, e naturalmente la “sua” copertina preferita. Proprio come con un figlio… Piano piano Momo è cresciuta, e ora è una bellissima gatta adulta, anche se ancora giovane. Ha subìto però il mio imprinting, e crede io sia sua madre e lei mia figlia. Ha un comportamento, con me, diverso dagli altri gatti. Con lei i NO non esistono, quando ha bisogno della mia vicinanza e calore, DEVE venire in braccio a me, qualunque cosa io stia facendo. Talvolta mi ritrovo a lavorare al computer con una mano sola, perché con l’altra sorreggo lei che mi si è abbandonata in grembo. A volte dorme sul divano accanto alla mia scrivania, poi improvvisamente si sveglia, con quattro balzi mi raggiunge e si fionda fra le mie braccia, si accuccia lì con la testa sul mio petto, e si riaddormenta. Se ne sta così per una ventina di minuti, poi, sazia di coccole e amore ricevuto, se ne torna a farsi gli affari suoi da qualche altra parte.

E’ assolutamente fiduciosa nell’essere umano, quando la tengo fra le braccia è rilassata al massimo, sembra senza muscoli, senza tensione alcuna. E quando esco per passeggiare nella campagna qua intorno, viene con me come un cagnolino, e mi segue per tutto il tragitto, anche se lungo e stancante.

L’istinto naturale l’ha fatta comunque gatta, ed è un abile cacciatrice. Numerose sono le sue prede che ho ritrovato al mattino sparse qua e là per casa, portate come un trofeo in dono alla sua “mamma-gatta”. E nei rapporti con gli altri gatti di casa (ai primi due si è aggiunto Rusty, anche lui salvato da morte certa) il suo comportamento è normalissimo, da gatta. Una bellissima, intelligente, sana e normale gatta domestica.

Due sorelle

Sofia

Oggi mia sorella Virginia si sposa. Sposa il mio fidanzato, Paolo. Dovevo sposarlo io il Paolo, ci conosciamo fin da bambini, e ci siamo fidanzati quando avevamo 15 anni io e 18 lui. Ci siamo promessi, come si dice, e facevamo progetti, una casa tutta nostra, con il giardino, e un cane per far giocare i figli, quattro ne volevamo, due maschi e due femmine. E poi l’orto dietro casa, che le verdure fresche fan crescere bene i bambini si sa, e qualche albero da frutta anche, un melo, un pero, e poi susine e ciliegie e chissà che altro. Facevamo sogni, il Paolo ed io, e tutti lo sapevano. Lo sapevano i nostri genitori, che ci guardavano quando si andava uno a casa dell’altro per studiare, o almeno questa era la nostra scusa. Lo sapevano i nostri amici, i compagni di scuola, ci chiamavano i “fidanzatini” prendendoci un po’ in giro, ma in realtà invidiandoci. Mai un litigio, mai un dispetto, mai una mala parola fra di noi. Io non ho mai guardato un altro ragazzo, lui mai un’altra ragazza. Eravamo io e lui, sempre, e andava bene così.

Poi un giorno è arrivata mia sorella Virginia e me l’ha rubato. Io non sono mai stata granché bella: piccolina di statura, magrolina, poco seno e poche curve, capelli castani insignificanti, occhi castani. Una bella bocca, questo sì, che a Paolo piaceva baciare. E poi sono intelligente, mi piaceva studiare, leggere, un libro dietro l’altro, e con Paolo si discuteva di scrittori, di poesie, di letteratura.

Virginia invece è bellissima, alta, bionda, due occhi azzurri che paiono rubati al mare più profondo, curve al posto giusto, il seno né troppo né troppo poco, il giusto insomma. Si veste bene, le piace vestirsi, spende tutti i suoi soldi per acquistare abiti, scarpe, accessori e va spesso dal parrucchiere. Io invece mi acconcio i capelli in casa, dal parrucchiere vado quando devo tagliarli, che mi annoia passare tutto quel tempo a far nulla lasciando che altri si occupino della mia capigliatura.

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Villa Mafalda

Una vecchia villa sulla scogliera, isolata e spazzata dal vento dell’oceano. Una pensione vecchio stile, dove vari personaggi si ritrovano per un periodo di vacanza e dove accadrà un mistero da risolvere.

L’arrivo dei primi ospiti

L’automobile correva veloce su quelle strade di campagna terrose, sollevando dietro di sé una nuvola di polvere. Sulla destra filari di viti si susseguivano intervallati da qualche pino marittimo e alte conifere, mentre dall’altro lato rumoreggiava il mare in burrasca. Dopo una curva all’improvviso apparve: la villa antica che sarebbe stata la loro casa per le prossime tre settimane. Una vacanza che i Brigton si regalavano ogni anno, lasciando la fredda e umida Inghilterra per il caldo e luminoso mediterraneo. Elisabeth sorrise nel vederla apparire, e strinse la mano del marito, che le sorrise di rimando.
Arrivati davanti alla villa vennero accolti dai proprietari, i due anziani coniugi Amedeo e Clotilde, sempre molto gentili e premurosi. Anche per loro i due inglesi avevano continuato a frequentare quel luogo, non amavano la confusione e trovavano gli italiani in generale troppo rumorosi, mentre questa coppia aveva il savoir faire tipico anglosassone a cui erano abituati.
Li accolsero infatti con un grande sorriso non appena scesero dalla vettura, noleggiata all’aeroporto di Roma, e mentre Amedeo con il garzone, accorso sollecito ad un suo cenno, toglievano le valigie dal cofano, Clotilde già si avviava all’interno prendendo sotto braccio Elisabeth e chiedendo ragguagli sull’anno appena trascorso dalla loro ultima venuta. John, il marito, si informò invece sugli altri ospiti che avrebbero condiviso con loro il soggiorno….

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La banda del Campo

Settembre, inizia la scuola

Quel lunedì avevamo ottenuto il permesso dalle nostre mamme, sorelle fra di loro, di andare a scuola a piedi da soli. I nostri fratellini no, erano troppo piccoli, ma noi dopo una settimana avevamo iniziato a scalpitare, eravamo grandi ormai, non volevamo più avere le mamme, o chiunque altro, che ci accompagnasse a scuola. Così quella mattina mi ero presentata davanti alla porta dei miei due cugini, Federico e Sergio, e li avevo trovati già pronti con gli zaini in spalla. Uscendo abbiamo incontrato anche le sorelle dell’ultimo piano, Daniela, Sonia e Manuela, e tutti in gruppo ci siamo avviati verso scuola. Federico ed io frequentavamo la quinta, Sergio la terza, e le tre sorelle in scala dalla terza alla quinta. Nel nostro palazzo vivevano anche altri bambini, alcuni dell’età dei nostri rispettivi fratelli altri più o meno della nostra. Quando non eravamo a scuola ci ritrovavamo in giardino o nel vicino campo giochi, che noi chiamavamo semplicemente “il campo”. Era il nostro mondo, il nostro “tutto”.

Lì si imparava a relazionarsi con gli altri, nel bene e nel male: si migliorava la lettura con i fumetti, si inventavano giochi nuovi, ci si arrampicava sugli alberi, si costruivano capanne con vecchie lenzuola rubate in casa, si scopriva l’altra metà del cielo con i giochi proibiti, primo fra tutti quello del “dottore”. E naturalmente si litigava, si creavano alleanze, altre si disfacevano, si tenevano musi che duravano il tempo di una merenda, poi tutto ricominciava come prima… (altro…)

L’abito da sposa

La donna era ferma alla guida della sua automobile, bloccata da un ingorgo al semaforo che, malgrado fosse verde, non lasciava passare nessun veicolo. Ascoltava un brano di musica classica alla radio, e lasciava vagare i suoi pensieri, senza troppo preoccuparsi del traffico. Non aveva fretta, non stava andando a nessun appuntamento importante, quindi poteva anche godersi il momento, la musica piacevole, il sole che entrando dal finestrino la scaldava piacevolmente.

Si guardò in giro senza troppa curiosità, osservando i passanti sul marciapiede, le vetrine dei negozi, quando un’immagine la colpì destandola da quello stato di apparente distacco dal mondo: un uomo, fermo immobile davanti alla vetrina di un negozio di abiti da sposa.

Era un’immagine un po’ incongruente. L’uomo, alto, brizzolato, elegante nel suo portamento, si appoggiava ad un bastone da passeggio che ne denotava l’età non più giovane. Quando si girò un po’ di tre quarti lo vide in viso, e gli diede una settantina d’anni. La donna si chiese cosa mai ne avesse colpito l’attenzione, in tutto quel biancore di tulle e pizzi, ricami e merletti, lui che era uomo e non più giovane. Ed iniziò a immaginare…

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La chat

Maria stava attraversando il parco cittadino, osservando le bellissime aiuole fiorite che punteggiavano di colore i prati. Era una bella giornata di primavera, il sole già caldo, il lago pieno di barche a vela, di cigni e papere che vagavano placide sulle acque calme.

Maria ripensava agli ultimi mesi, a quando, rimasta sola dopo che i figli avevano lasciato casa per vivere la loro vita, lei si era comprata un computer, e navigando qua e là aveva scoperto il mondo delle chat. Inizialmente era stata un’amica lontana che gliene aveva accennato, dicendole che con quel mezzo loro due avrebbero potuto comunicare anche senza telefonarsi, senza spendere per parlarsi a voce, ma utilizzando la scrittura immediata della chat. A Maria la cosa aveva intrigato e fattosi spiegare bene in cosa consisteva, ci si era buttata. All’inizio comunicava solo con Piera, la sua amica, ma piano piano si era fatta coraggio e aveva iniziato a rispondere anche a qualche altra persona che la contattava. Quasi sempre uomini, ovviamente. Non che la cosa le dispiacesse, tutt’altro. Sola ormai da molti anni, da quando era rimasta vedova causa un brutto male che le aveva portato via il suo Antonio, non disdegnava l’idea di trovare un nuovo amore, o perlomeno un’amicizia affettuosa, come le piaceva dire alle sue amiche…

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La telefonata

Sabato sera, ore 20 circa. Il cellulare suona:
pronto?
pronto, ciao, c’è Paola?
no guardi qui non c’è nessuna Paola, deve aver sbagliato numero
ah, scusi… ma non è il ….?
no, questo è il …..
ah mi scusi ancora, buonasera

Sabato sera, ore 20.20 circa, il cellulare suona di nuovo:
pronto?
– salve, scusi io sono quello di prima… quello che ha sbagliato numero… –
– buonasera a lei, ha trovato Paola? – rispondo stupita e un po’ ridendo fra me e me…
– no, no, mi scusi… sono un po’ imbarazzato… non so come dirlo… –
– lo dica e basta –
– il fatto è che stavo dicendo al mio amico che ho parlato per sbaglio con una donna con una voce bellissima, molto sensuale, e lui ora vorrebbe sentire la sua voce… –
– …ma mi sta prendendo in giro? –
– no, davvero! è che lei ha una bella voce… morbida, sensuale… mi scusi sa… –
– ha ha ha … non mi faccia ridere! –
– dico davvero! non si arrabbi… parlerebbe un momento con il mio amico? Lui ci terrebbe davvero tanto, e se non lo accontento mi dà il tormento chissà fino a quando…-
– va beh, allora me lo passi..… –
……………
salve. mi scusi sa… ma il mio amico mi ha detto che lei aveva una voce meravigliosa e io ero invidioso e volevo sentirla, volevo sentire se era proprio così come diceva lui… –
– e adesso? è contento? –
– sì molto, grazie! e lei ha davvero una bella voce… come si chiama? –
– Linda, e lei? –
– Giuseppe. Possiamo darci del tu? –
va bene, Giuseppe, piacere di sentirti. Però adesso devo andare
di già? no dai, parliamo ancora… mi piace troppo sentirti parlare
– ma dai, ora hai sentito la mia voce, adesso basta. Vai a divertirvi con i tuoi amici. –
– se ne sono già andati, in discoteca, a me non interessa, preferisco stare qui a parlare con te… –
– ma io ho da fare, non posso restare al telefono per ore… –
– ma posso richiamarti? domani? ti prego… –
– mah, non saprei… per fare cosa? non ti conosco… –
– nemmeno io ti conosco, ma mi piacerebbe, almeno per telefono… sento che sei una bella persona, intelligente, arguta, simpatica… –
– grazie per i complimenti… e va bene, senti il mio numero ormai ce l’hai, se vuoi chiamare, chiama. Ora devo proprio andare, ciao. – E chiudo la telefonata.

Ero frastornata, ma anche divertita. Il fantomatico Giuseppe mi era sembrato una persona simpatica, un po’ burlona forse, ma in fondo innocuo. Ho pensato ad una golardia di giovani annoiati. Mi sbagliavo.

E’ iniziata così una “amicizia” telefonica che è durata diversi anni. Giuseppe chiamava ogni tanto, all’inizio quasi ogni sera, poi una o due volte la settimana, e qualche volta lo richiamavo io. Erano conversazioni divertenti, mi faceva ridere fino alle lacrime, scherzavamo su tutto, su noi stessi prima di tutto. Lui era giovane, non aveva ancora trent’anni, io più vicina ai cinquanta che ai quaranta, e se ci pensavo troppo mi sentivo sua madre… Ma quelle telefonate mi facevano piacere, non posso negarlo. Flirtavamo sul filo del telefono, giocavamo con noi stessi, consapevoli entrambi che si trattava appunto solo di un gioco.
Giuseppe era di Napoli, finanziere senza specificare bene in che ambito, la classica scusa “se te lo dico poi ti dovrei uccidere…” o quasi, ma grazie al suo lavoro aveva scoperto tutto di me: dove avevo vissuto prima, con chi mi ero sposata, quanti figli avevo, ecc. Io invece non sapevo niente di lui, nemmeno il cognome, ma non mi importava. Giuseppe era una voce al telefono e un volto immaginato, e tanto mi bastava. Quando le telefonate iniziarono a farsi più rade, di tanto in tanto me ne dimenticavo, sorprendendomi con piacere ogni volta che vedevo riapparire il suo nome sul display del cellulare.

La vita però va avanti, e se già le relazioni di amicizia a distanza faticano a durare nel tempo, figuriamoci quelle solo virtuali! Io mi ero anche trasferita, andando a vivere in un’altra regione, e Giuseppe aveva intrecciato una relazione con una ragazza dalla quale aveva avuto in figlio. Mi chiamava per dirmi le sue difficoltà ad accettare la cosa, soprattutto il fatto che i suoi parenti volevano che i due si sposassero. Lui era molto restio ad accettare un matrimonio riparatore, senza tuttavia voler venire meno ai suoi doveri di padre. Tuttavia questo figlio inatteso richiedeva tutte le sue energie, e le telefonate ormai erano divenute sporadiche, per non dire quasi nulle.

Un giorno dovetti cambiare il cellulare e la scheda, e nel cambio malauguratamente persi alcuni numeri memorizzati, tra i quali anche quello di Giuseppe. Lui sincronicamente non richiamò più, e quando mi trasferìi nuovamente, ma questa volta all’estero, cambiando anche i numeri di telefono, seppi di averlo perso per sempre.
Mi farebbe piacere sapere come è proseguita la sua vita, se ha avuto il figlio, magari poi più di uno, se lavora ancora per lo Stato o ha aperto la palestra come mi diceva di voler fare.. Insomma, mi piacerebbe risentirlo solo una volta per sapere. Ma forse invece è giusto così. Quella voce portata dal filo del telefono rimarrà solo nei miei ricordi.